Don Milani: maestro e profeta al servizio degli ultimi

A cinquant’anni dalla morte, il MIUR ha voluto commemorare la figura di don Lorenzo Milani, in un convegno svoltosi il 5 giugno scorso. Anche Papa Francesco ne ha parlato in termini lusinghieri, ponendo in evidenza le sua qualità di prete e di pedagogista, poste al servizio dei contadini e degli operai, ossia di coloro che, essendo in condizioni di inferiorità culturale, erano oppressi, emarginati, umiliati, soggiogati da chi deteneva il dominio della “parola” e, quindi il potere.

Non appena diventato maestro, appena ventiduenne, lessi il suo libro “Lettera ad una professoressa”, che mi mise letteralmente in crisi, spingendomi a rimettere in discussione le acquisizioni fino ad allora apprese sulla metodologia e sulla didattica. Leggendo, poi, “Esperienze pastorali”, censurato dall’autorità ecclesiastica del tempo ( don Milani fu trasferito a Barbiana, su decisione del suo Vescovo, per isolarlo, perché “evangelicamente” scomodo e rivoluzionario) e “L’obbedienza non è più una virtù”, contro l’obbligo di uccidere in guerra, oltre al libro “Dalla parte degli ultimi” di Neera Fallaci, sorella meno nota della scrittrice Oriana, mi resi conto della sua inquieta ansia profetica , del soffio potente dello Spirito che, attraverso di lui, sconvolgeva modi stantii di praticare la fede, ponendo i credenti di fronte alle responsabilità esigenti richieste dalla Verità del Vangelo di Cristo, in ordine all’urgenza di prendere posizioni per la pace, per il disarmo e la giustizia sociale, a favore dei poveri.

Limitando il mio intervento al don Milani maestro, occorre sottolineare che a una scuola fatta su misura dei pochi, ai fenomeni di disimpegno, di superficialismo della classe docente, egli rispose con un impegno e una disponibilità commoventi, con una assiduità nel suo lavoro seria e responsabile, con una ricerca continua ed instancabile del come fare scuola, per accrescere la misura umana delle persone singole e delle comunità. Affrontò, insomma, il problema della scuola, prima ancora che in termini didattico – metodologici, in termini politici. Come la Montessori e il Decroly, per non dire di altri, non aveva alcuna specializzazione in pedagogia, ma fece dell’educazione il suo campo di azione e di battaglia, dopo una sofferta conversione che lo portò a farsi prete. Non fu, però, un sacerdote di comodo, non scese a compromessi e, proprio nella sua fede, trovò la forza indomabile che lo fece essere anticapitalista, anticomunista e anticlericale.

Egli, prete, attuò una scuola profondamente laica e aconfessionale. Scelse, infatti, di fare scuola ai più piccoli, agli esclusi dalla società, per educarli a liberarsi da soli e così diventare uomini. Che importava se quei poveri appartenevano a famiglie di comunisti? Egli era con loro, al loro servizio, non perché si sentiva comunista, ma perché nei poveri vedeva Cristo stesso. Ogni suo sforzo, perciò, era teso a dare ai piccoli, “a quelli che spesso la scuola boccia” e che, quindi, vengono a costituire quell’immensa schiera di persone ai margini della società, “il dominio della parola”, lo strumento, cioè, per entrare in comunicazione con gli altri; perché possedere la parola, significa alla fine avere la possibilità di aprirsi alla Rivelazione: attraverso quel dominio, infatti, l’uomo, per don Milani, diventa persona dotata di autocoscienza e conscia del proprio destino nella società ed entra in relazione con gli altri; così egli si può incontrare anche con Cristo, “Parola di Dio” fatta carne. Era convinto che quando avrebbe portato i suoi giovani a prendere coscienza di loro stessi e

delle loro posizioni nel mondo, si sarebbero loro stessi, consapevoli di “essere delle povere creature ignare del futuro e di tutto”, rivolti là dove “si assolvono i peccati e si promette, anzi si assicura il perdono di Dio e la vita eterna”.

Era un prete scomodo, senz’altro un educatore scomodo se si pigliava la briga di “turbare la coscienza” di molti borghesi scossi dal suo modo apparentemente strano inconsueto di comportarsi. Rifiutava ogni falsa concezione dell’umiltà e del rispetto degli altri, proprio del galateo borghese (anch’egli di origine borghese e coltissimo, proveniente da una famiglia di facoltosi intellettuali), il quale viene spesso eretto a legge morale. E voleva che a chi mirava in basso, non a chi era in basso, si rinfacciasse ogni giorno la sua pochezza, la sua miseria morale, la sua inutilità, la sua incoerenza. Occorreva, per don Milani, come hanno fatto i profeti prima e dopo Cristo, rendersi antipatici, noiosi, insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi alla luce.

In “Lettera a una professoressa, che è “il grido” della rivendicazione della sovranità come partecipazione agli elementi primari ed essenziali quali la parola e l’istruzione, si afferma che alla scuola si va per imparare e non per essere bocciati, emarginati, esclusi. E quando si impara c’è soddisfazione, c’è gioia, specie quando l’imparare diventa una scoperta, un fatto soggettivo. Allora, per imparare di più, piacerà al ragazzo starci di più. I ragazzi amano la scuola quando se ne dà loro molta, quando diventa la parte principale della loro vita, della loro giornata, quando ritrovano una possibilità di riuscita: una scuola, dunque, a tempo pieno, nella quale gli alunni possano trovare una risposta ai loro interessi; una scuola dove s’impara, non è fatica, non fa male; fatica é quella scuola in cui uno teme di essere bocciato o interrogato. Una scuola vista non come un luogo di selezione, ma come possibilità di alfabetizzazione, di possesso della lingua, è la soluzione base del problema religioso, culturale sociale, politico. Efficacemente condensato il suo pensiero nella nota espressione: “La scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

L’essere inseriti nella vita, il vivere quotidianamente a contatto con i ragazzi di estrazione socio – culturale svantaggiata e amare la politica, per don Milani, è tutt’uno. Molta gente crede che far politica voglia dire essere iscritti ad un partito; invece si sbaglia, perché politica si fa sempre, anche quando si fa scuola, quando si compie una scelta. Politica significa accorgersi che i problemi degli altri sono uguali ai tuoi e darsi da fare per risolverli insieme. In “Lettera a una professoressa” è scritto chiaramente: “Bisogna lottare per uscire da questo inferno: uscirne tutti insieme e per sempre uniti a quelli che soffrono è politica. Sortirne da soli è avarizia. La politica è l’unico mezzo per liberarci”. Le cose, perciò, bisogna vederle in modo realistico, per cui “ogni maestro deve essere un uomo politico, nel senso che deve saper analizzare, cogliere la realtà in cui vive per portare la vita nella scuola assieme al bambino.” Il maestro, pertanto, non ha affatto un ruolo secondario. Il suo valore consiste nella coscienza della propria dignità di uomo e di cittadino. Egli deve essere sempre disponibile per i suoi allievi e questa disponibilità sortirà un premio inaspettato: Dio stesso. “ Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro a poche decine di creature, troverai Dio come primo. E’ inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio”.

In una frase del suo testamento si vede tutto l’amore del prete di Barbiana per i poveri, ma anche la sua ortodossia alla fede cristiana, perché egli ha voluto bene alle stesse creature che Cristo ha amato: “HO VOLUTO PIU’ BENE A VOI CHE A DIO, MA HO SPERANZA CHE LUI NON STIA ATTENTO A QUESTE SOTTIGLIEZZE E ABBIA SCRITTO TUTTO AL SUO CONTO”.

 

Antonio Botta

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