Quale futuro?

Donald Trump ha vinto perchè ha fatto emergere, portandole alla luce, quelle correnti sotterranee di pensiero, di comportamenti sociali, di stili di vita che da anni attraversano la società americana.
Delle linee di frattura sociale che segnano al tempo stesso il dentro e il fuori, i rapporti interni e la proiezione esterna dell’intera società americana e in questo anno di scontri elettorali sono diventate pìù che mai visibili. Molto più ampie e profonde del solo risentimento per la propria condizione sociale, che riguarda interi strati di lavoratori bianchi delle aree industriali.
L’eccezionalità della lunga campagna elettorale bisogna cercarla qui e non solo nel razzismo e nel sessismo del tycoon newyorkese nei giochi di potere dell’FBI, della Fondazione Clinton, dei grandi media in orbita democratica. Dalle primarie in poi, con Trump e in parte con Sanders, l’America si è progressivamente guardata allo specchio e quando l’immagine è diventata nitida ha visto una realtà imprevista. Qui sta la vera natura del successo di Donald Trump. Un candidato impresentabile, secondo un’astratta concezione del “politicamente corretto”.Senza la macchina elettorale di un partito alle spalle ha fatto una campagna fuori dai soliti schemi calamitando su di sé una pluralità di paure sociali, rabbie politiche e angosce per delle condizioni di vita con poche prospettive. Ad Hillary Clinton non è bastata la sua collocazione in uno snodo decisivo della governance americana, all’incrocio dei poteri politici, economici, finanziari e militari. Come non ha inciso a sufficienza il tentativo degli ultimi mesi di usare tutti i possibili strumenti e registri della comunicazione politica per contenere il flusso trumpista che stava debordando dai percorsi digeribili della normale rappresentanza politica.
Trump vince e il partito repubblicano mantiene la maggioranza sia alla Camera che al Senato: sembrerebbe l’apertura di un altro ciclo politico dopo gli otto anni di Obama. Invece è il paradosso di queste elezioni. Il partito repubblicano è stato investito dall’onda d’urto di Trump che ne ha sconvolto le gerarchie interne e lo stesso insediamento in molte aree del paese. Ed è difficile credere che proprio Trump possa rappresentare un riferimento per la sua ricostruzione dopo un anno e mezzo di scontri interni che hanno lasciato sul terreno morti e feriti. Si apre una fase di governabilità instabile dell’assetto bipartisan
dell’establishment politico istituzionale. Con l’archiviazione del soft power dell’amministrazione Obama, se l’America deve tornare di nuovo ad essere grande, per riprendere lo slogan di Trump, questo non può certo avvenire contro la maggioranza dei generali del Pentagono, le grandi banche e il capitalismo dinamico della West Coast, tutti orientati verso il campo del partito democratico. Un partito che con la sconfitta di Hillary Clinton ha davanti a sé una crisi che se non governata può sfociare in scenari che ad oggi non sono preventivabili.

Da questo punto di vista risultano ancora più gravi le scelte di Bernie Sanders, fattosi imbrigliare nei meccanismi di funzionamento e di potere del partito democratico. E per non essere stato portatore di una reale alternativa alla struttura bipartisan del potere politico. Prima è stato depotenziato nella carica di cambiamento sociale che per alcuni mesi ha raffigurato e poi riassorbito nella Convention democratica. L’estremo tentativo di Sanders e del suo staff di recuperare terreno, alla fine delle primarie democratiche, con il lancio di una improvvisata proposta politica denominata “Our Revolution”, che prevede delle azioni per linee interne ai vari livelli della rappresentanza politica e istituzionale, mostra tutta la debolezza del senatore del Vermont di andare oltre ad essere stato un semplice contenitore dei vari aspetti dell’indignazione politica e del conflitto sociale.

Il malcontento e la delusione della grande maggioranza dei giovani che avevano sostenuto Sanders non sono stati intercettati dalla campagna presidenziale di Jill Stein dei Verdi. Un partito
esclusivamente elettorale che, dopo la ridotta e litigiosa Convention che ha tenuto in agosto a Houston, ha prodotto una piattaforma elettorale rivelatasi inefficace per la mobilitazione sociale. Costruita sommando aritmeticamente un’infinità di obiettivi con evanescenti richiami anticapitalisti e la proposta di un illusorio capitalismo sostenibile. Che si affermerebbe grazie al virtuoso incontro tra imprese pubbliche e private, cooperative e indefinite strutture economiche alternative. Il tutto è stato, ed è, percepito come troppo lontano dalle aspirazioni della gran parte delle decine di migliaia di attivisti che si sono politicizzati sostenendo la campagna di Sanders che, guardando le primissime analisi del voto, si sono riversati nell’astensione. Anche questa volta le possibilità di un terzo polo di sinistra nella rappresentanza politica sono naufragate all’alba del giorno dopo le elezioni. Mandando in fumo anche le speranze di quella sinistra radicale, sempre troppo rinchiusa nella propria ortodossia passiva, desiderosa di un piccolo riscatto dopo che in questi anni ha perso tutti i treni dei movimenti sociali: da Occupy a Black Lives Matter.

E’ stata la campagna elettorale per l’elezione del Presidente, della Camera dei rappresentanti, di un terzo del Senato, di alcune decine di Governatori più costosa di sempre (quasi 7 miliardi di dollari), marchiata dalle selvagge scorrerie mediatiche dei PAC (Political Action Commitee ) e super PAC, dove la favola della superiorità del modello americano di democrazia è stata smentita per l’ennesima volta. Ora Trump è chiamato a negoziare su diversi fronti interni e internazionali. Con il Senato e il Congresso che, anche se a maggioranza repubblicana, saranno poco disponibili a finanziare costruzioni di muri oltre a quelli che già ci sono. Oppure ad imbarcarsi in improbabili schieramenti “antimperialisti” con Putin e Assad. La campagna di Trump non è stata populista. E’ adesso che Trump deve diventare populista e costruirsi un’opinione pubblica non ostile per reggere una presidenza senza basi, per ora, nell’establishment istituzionale. Compito difficile per The Donald a corto di risorse politiche se non il negoziato sempre e comunque e su qualsiasi cosa. Tutte le contraddizioni politiche e sociali quindi rimangono aperte.

Le rivolte di Ferguson, di Baltimora, di Baton Rouge non sono stati episodi estemporanei. La lotta per il salario orario minimo non si ferma, il colossale indebitamento con le banche degli studenti è una mina vagante e qua e là si affacciano alcune esperienze di autorganizzazione dei lavoratori e dei cittadini. Un conflitto sociale che nonostante tutto continua a ripresentarsi. Sempre restio a farsi rappresentare dalle organizzazioni tradizionali delle sinistra anche radicale e tanto meno dai principali sindacati completamente schiacciati, senza condizioni, sul partito democratico. Anche con l’elezione di Trump, come del resto sarebbe stato con quella di Hillary Clinton, permane un certo disordine sotto il cielo e la situazione potrebbe farsi quanto meno interessante.

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Felice Mometti

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