La disoccupazione diventa emergenza e allarme sociale nel Mezzogiorno

L’ aumento dei disoccupati mostra come il fallimento della politica sia totale e definitivo nell’attuazione di politiche occupazionali e di sviluppo inadeguate.
La parte di Italia in cui si soffre di più l’assenza di lavoro è il Mezzogiorno che registra picchi di disoccupazione rispetto al resto della penisola: il fallimento dalla manodopera industriale è doppia rispetto al centro-nord, così come l’impiego della cassa integrazione è più massiccio . Si aggiunge a tutto ciò il minor numero di rientri sul posto di lavoro rispetto al nord e la dispersione scolastica: quasi il 20 cento di ragazzi iscritti ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma di scuola superiore. Dall’ultimo rapporto Svimez si evince che due giovani su tre sono a spasso nelle regioni del Sud.  Un Sud che arranca, pur lasciandosi alle spalle la recessione più grave dal dopoguerra, con Abruzzo, Sardegna e Calabria che guidano la ripresa. Un Sud dove le famiglie hanno anche difficoltà a spendere, ma che costituisce una sorta di protezione evitando che la disoccupazione schizzi a livelli astronomici. Calano sempre più gli occupati, chiudono le aziende, cresce il sommerso. Si tratta di dati impressionanti , che definiscono tutta l’incompiutezza dell’unificazione nazionale, il cui divario Nord-Sud risulta sempre più grave e gravoso sul rilancio dello sviluppo economico nazionale e della sua competitività con il resto d’Europa. Una su quattro non ce la fa. Nel Sud Italia, infatti, una persona su quattro non lavora, se consideriamo anche i lavoratori in cassa integrazione e gli scoraggiati. Il 25 per cento dei meridionali non lavora o ha smesso di cercare un’occupazione e il tasso di disoccupazione stabile al Sud è del 13,4%, in aumento di quasi un punto e mezzo rispetto a due anni fa. È il quadro, a tratti drammatico, che emerge dal Rapporto

Svimez 2011 che traccia una sorta di deserto occupazionale nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia con tassi di senzalavoro doppi rispetto alle aree del centro nord. La disoccupazione affligge tristemente il mondo dei giovani, specie in rapporto al loro futuro personale e sociale, al punto che il progetto famiglia rischi di non realizzarsi mai, aumentano i fenomeni della disgregazione ed incrementa la tentazione della criminalità, tanto che è la stessa società che si scompagina. La globalizzazione ambiva a porsi come il destino maturo del mondo, ma che, al contrario, stando al volto che finora ha dato di sé, ha mostrato i lati della sua fragilità e l’incompiutezza, rispetto alla necessaria vocazione ad essere strumento costruttivo per il bene degli Stati e dei popoli. Il lavoro è parte speciale di quelle condizioni indispensabili che una società, veramente umana, deve garantire perché ognuno, singoli e gruppi, possa non solo sopravvivere e vivere ma ancora di più realizzare sé stesso. Se la persona perde il lavoro, si sente toccato nell’intimo della sua dignità e delle sue innate aspirazioni ossia esprimere sé stesso e sentire di partecipare alla vita della comunità. La mancanza di lavoro incide pesantemente anche sul tessuto della famiglia, tanto è vero che i rapporti, soventemente, creano la scissione della convivenza familiare e la casa, anziché essere il luogo dove si rientra volentieri, diventa il luogo di nuovi problemi e tensioni. La disoccupazione porta a vivere situazioni avvilenti e frustranti, non solo dal punto di vista economico, isolando di fatto la persona dal ciclo dei consumi questi si sentirà incapace di smuovere l’economia e del tutto inutile durante i periodi di recessione economica, ma anche dal punto di vista psicologico. Si è parlato di depressione correlata alla disoccupazione. Un costo sociale di cui lo Stato deve farsi carico. Se da una parte, non si vive di solo lavoro, dall’altra, diventa molto difficile sopravvivere senza. Penuria di lavoro sta a significare nessun futuro, nessun presente e niente passato, per il fatto che, a volte, è meglio non rammentare quando si viveva meglio. Di questa amara piaga occupazionale se ne parla da decenni nel nostro Paese, ma è, negli ultimi tempi, che la malattia si è aggravata. Il morbo, infatti, ha subito il suo mutamento e ha assunto una nuova forma, più complessa da debellare, definita: precariato. Il malato precario, a differenza del disoccupato che vive senza speranze, è, al contrario, appeso ad un filo molto sottile, fragile e in balia del vento. Purtroppo, in queste condizioni disumane, si svolge la vita del disoccupato precario italiano soprattutto della nostra regione. Di colui che combatte ogni giorno contro la malattia che vorrebbe vederlo affossare, contro lo Stato che lo considera un evasore, e contro la società che si limita ad additarlo come non meritevole d’impiego. 
Una società quella italiana che di meritocrazia non conosce nemmeno il significato. Come ebbe a dire una volta, il noto sociologo professor Ferrarotti, “la raccomandazione è il malcostume della società”.
Come scriveva il Costituzionalista e costituente “democristiano” 
Costantino Mortati, che «il titolo commisurativo del valore sociale del cittadino sia desunto dalle sue capacità, non già da posizioni sociali acquisite senza merito del soggetto che ne beneficia», e costituiscano perciò un privilegio. Per questo il lavoro è oggetto di un diritto di tutti i cittadini, da rendere effettivo promuovendone le condizioni.
Per questo è oggetto di «tutela», in «tutte sue forme e applicazioni» 
(articolo 35 della Costituzione).

Un cordiale saluto
Mauro Curioso

 

 

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