ANALISI ANTROPOLOGICO CULTURALE DELLA CITTA’ di CASORIA E DEI SUOI CONFINI

Casoria, deserto sub – urbano, escrescenza tumorale metastisizzata tra due realtà socio – politiche dai contorni ben definiti. Da un lato il blocco monolitico dei paesoni Afragola – Frattamaggiore – Cardito – Caivano, da un altro lato Napoli, capoluogo e metropoli, capitale del Mezzogiorno d’Italia. Il primo si configura, sostanzialmente, come un sistema chiuso, autoalimentatesi, protetto da tradizioni patronali ancora solide, dalla presenza più che ventennale sul suo territorio di Licei, istituti tecnici ed istituti professionali (ciò riesce anche e addirittura a tamponare la pendolarità dei suoi studenti), dall’esistenza di luoghi di aggregazione dove da anni si intrattengono generazioni di giovani autoctoni (“il Banco di Napoli” a Frattamaggiore, la “piazza” a Cardito, “il corso” a Caivano, “viale Sant’Antonio” ad Afragola). La seconda è una metropoli complessa; Napoli non è solo la città di pescatori e acquafrescai, della pizza e del caffè, ma, è un incrocio millenario di razze e di culture, crocevia di esperienze tra Africa ed Europa.

Napoli è anche, è sempre, la Città che, all’indomani della Liberazione, passa dall’eroismo della Resistenza alla peste della corruzione. Uomini, donne, bambini vennero contagiati da una sorte di malattia mortale per la quale si abbandonarono alle più vergognose

umiliazioni, pur di procurarsi un po’ di fittizio benessere. Fu un periodo storico in cui la condizione umana di Napoli fu elevata a rango di una indimenticabile epica moderna.

 

Casoria è, così, in limine, sul confine, “città invisibile” per coloro che vi transitano e per coloro che vi risiedono, dotata per giunta, di una stazione ferroviaria che ne aumenta, quindi, lo sradicamento, rendendo facilitata ed immediata la fuga. Oltre all’assenza di tradizioni popolari forti (oltre a far scomparire, affossate nell’oblio, quelle poche che le intelligenze dei nostri avi hanno tentato di trasmetterci) è da sottolineare la mancanza di un’identità dialettale (si pensi di contro alla bassoliniana “e” larga afragolese, all’articolo determinativo femminile plurale “i” dei frattesi).

Lo spirito del casoriano è un “non esserci”, un “vivere nell’assenza” e la maniera in cui si sentono le situazioni locali  ne è naturale conseguenza. Per esempio anche a Casoria vi sono punti di ritrovo, più o meno nuovi, quali “il Business Cafè” in via Marconi, “il vecchio Upim” oggi Galleria Marconi, ma la popolazione giovanile che li affolla non vi staziona, ma vi transita per vedere “dove si va” e, per chi dispone di un mezzo di locomozione, la meta è quasi sempre fuori Casoria. Questi “raccoglitori sociali” sono sì, più di uno, rilevando quindi, rispetto al paese, una maggiore varietà sociale, ma sono ubicati tutti nella stessa zona della Città, che è, tra l’altro, la zona più abbiente. E cosa ne è dei tanti giovani dell’intra – periferia di Casoria, che vivono tra le pro – tuberanze della “Cittadella”, nelle case popolari “le Palazzine” o nel “Parco SIE”?

Poi c’è via Santa Croce, dove sono crollate le case, dove gli abitanti trascorrono seduti tra le macerie, prostituiti allo sguardo di compassione o di indifferenza dei passanti. Questa è Casoria. C’è chi sogna con l’Espressionismo Dinamico e chi non sa nemmeno leggere, scenari sociali così lontani eppure così vicini.

Nelle metropoli di tutto il mondo è esistente la compresenza di frange sociali, antitetiche per cultura e costumi, ma il punto fondamentale è proprio che negli scenari iper – urbani esse hanno decisamente più spazio per svolgersi, per esprimersi, per definirsi. Nelle periferie trans – metropolitane, invece, il proiettile sociale è sempre in canna, non riesce ad essere sparato, può e- splodere o, al limite, im – plodere. Dunque giovani porosi, sensibili ai fermenti e ai fenomeni del mondo, nascosti nel cemento e tra le lamiere di acciaio dei garage, frange sociali sotto – culturizzate disperse tra le macerie della polvere (in) urbana sono il punto di forza eversivo della periferia. L’unico che può intoppare i processi omologanti della globalizzazione, della macdonalizzazione delle grandi metropoli.

Nello scrivere questo articolo ho pensato e sto pensando a due carissimi amici, due giovani intellettuali: lo scrittore Giuseppe Pesce e il Prof. Antonio Pannone. A me piacerebbe un loro intervento.

Anche Casoria ha i suoi archi – tetti, anch’essa, come ogni periferia trans – metropolitana, è stata fagogitata in più parti da questo meccanismo alienante. Esso attecchisce su un ceto medio.

Medio perché sta in mezzo alle due frange eversive il cui carattere distintivo è dato non dalla classe sociale di appartenenza, ma di aspirazioni e obiettivi comuni. Il ceto medio, insomma, ha deciso di dare anche l’anima a questo modo di vivere.

Perciò Casoria vive oggi, forse un po’ più di ieri, uno sdoppiamento di personalità. E’ spaccata, frammentata. La sua voce non si omologa a quella di una cittadina impacchettata e preconfezionata. In realtà, a Casoria esistono più voci. Esse rappresentano dei veri e propri sismografi che rilevano uno stato di malessere profondo.

Così, accanto agli indifferenti, stanno individui assai particolari e che è lecito, almeno in parte, definire di confine, vera e propria cifra fisica ed esistenziale di questo cancro.

Ci si può imbattere in individui che sembra siano stati ibernati per decenni e che, dopo essere stati scongelati, siano del tutto incapaci di orientarsi perché le cose sono cambiate e la post – modernità ha polverizzato le loro categorie interpretative. Altri invece recano i segni di una sofferenza quotidiana, di un dolore profondo, che ora si esprime sull’umidità di un muro, ora resta un nodo alla gola.

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